Gli Swazi appartengono al ceppo degli Nguni (insieme agli Zulu, ai Xhosa ed agli Ndebele): nel periodo dello “Mfecane” (in lingua Zulu significa “devastazione”), in cui accaddero grandi disordini politici e migrazioni forzate che sconvolsero l’Africa del Sud nei primi decenni del XIX secolo, in concomitanza con l’ascesa della nazione Zulu e la presa del potere da parte del potente Re Shaka, essi si distaccarono emigrando sui monti Drakensberg, dove colonizzarono l’area attualmente denominata eSwatini (in precedenza chiamata Swaziland). Il primo regno Swazi fu fondato dal re Ngwane III nel XVIII secolo. L’attuale re Mswati III nel 2006 promulgò una nuova costituzione che introdusse la monarchia assoluta: il Parlamento ha solo poteri consultivi, i partiti politici sono stati sciolti, è ammesso solamente l’associazionismo apartitico. Nel 2018, in occasione del suo cinquantesimo compleanno, il re cambiò il nome del paese da Swaziland a eSwatini. E’ una delle tre monarchie presenti in Africa, insieme al Marocco ed al Lesotho.
La loro organizzazione sociale, sin dalle origini, fu molto semplice: gli uomini praticavano l’allevamento del bestiame (che costituiva la vera “ricchezza” del nucleo familiare), mentre le donne lavoravano la terra, occupandosi dei figli e della gestione familiare. L’importanza e la considerazione nei confronti dei loro capi di bestiame sono confermati anche dalla disposizione della recinzione (“Kraal”) atta a custodire gli animali durante la notte: essa era posta al centro del villaggio tradizionale. Gli animali di allevamento rivestivano un ruolo fondamentale anche nei rapporti sociali: ad esempio, il prezzo da versare ai genitori per chiedere in sposa la loro figlia era indicato in un numero di capi di bestiame da concordare. La carne degli animali veniva consumata raramente e solo sporadicamente in occasioni particolari ed a scopi rituali, mentre il latte ed i suoi derivati costituivano l’alimento base per i bambini, mentre erano assolutamente vietati alle donne sposate. Era previsto anche il divieto di consumare il pesce, ed alle donne è attualmente negato il consumo delle uova, mentre in passato alcuni animali selvatici non potevano essere cacciati e la loro carne non poteva essere mangiata.
Le capanne sono costruite ad alveare con una struttura portante in stecche di legno intrecciate (simile a quelle realizzate dagli Zulu, con cui presentano forti analogie nelle tradizioni e nei costumi) ed il tetto in paglia fermata con corde per fissarlo alla struttura sottostante. Nel loro villaggio è presente la grande capanna (“Indlunkulu”), utilizzata come santuario di famiglia dedicato agli antenati. Altre capanne sono occupate dalle mogli, mentre la madre del capo villaggio abita in una capanna più grande rispetto alle altre.
Il matrimonio è considerato come l’unione di due famiglie: un tempo erano comuni i matrimoni poligami, ma la diffusione del Cristianesimo e le condizioni economiche li hanno resi molto rari. In una fattoria poligama ogni moglie ha la sua capanna ed il proprio cortile circondato da recinti di canne. Vi sono tre strutture: una per dormire, una per cucinare ed infine una per conservare (cereali, birra e quanto necessario alla loro alimentazione). Nelle fattorie più grandi esistono strutture utilizzate come alloggi per scapoli e alloggi per gli ospiti.
Una tradizione Swazi molto romantica e singolare, prevede che l’uomo innamorato scriva delle lettere d’amore realizzandole con perline colorate che poi formeranno una collana al cui centro verrà posto un ciondolo quadrato che rappresenterà la dichiarazione d’amore: ancora oggi la maggior parte delle donne Swazi indossano con orgoglio questa dichiarazione d’amore ricevuta.
Essi credono nella stregoneria e nei divinatori, alcune loro fattorie vengono “protette” da rituali magici, mentre i divinatori spesso sono posseduti dagli spiriti che svelano loro quello che il futuro riserverà, molti si rivolgono ai guaritori tradizionali (denominati “Inyanga”) che impiegano la medicina naturale e svariati rituali durante la somministrazione delle loro “cure” (sono famosi per l’abile lancio delle ossa, “Kushaya ematsambo”, utilizzato per determinare la causa di una malattia).
Il “Sangoma” è un rabdomante tradizionale scelto dagli antenati di quella particolare famiglia. Egli deve seguire un duro addestramento dal nome “Knetfwasa” ed al termine parteciperà ad una cerimonia in cui tutti i Sangoma si riuniscono per banchettare e ballare, eleggendo il nuovo entrato al loro rango.
Egli verrà consultato per i motivi più svariati, dalle cause di una malattia alle motivazioni di una morte. La diagnosi che lui metterà in pratica si dovrà basare sulla “Kubhula”, un processo di comunicazione attraverso un profondo stato di trance con il mondo degli spiriti che doneranno a lui superpoteri naturali.
Anche gli Swazi, come i cugini Zulu, amano la danza e si cimentano in balli acrobatici e dove la prestanza fisica la fa da padrona. Le donne indossano graziosi teli colorati e cavigliere con applicate una serie di conchiglie che suonano al ritmo della danza. Gli uomini, invece, indossano un gonnellino ed accessori sulle braccia e sulle gambe che risultano molto simili, se non identici, a quelli utilizzati dagli Zulu.
L’evento culturale tra i più importanti è la cerimonia “Incwala”, che si tiene il quarto giorno dopo la luna piena nel giorno più lungo dell’anno (il 21 dicembre): il termine può essere tradotto in “cerimonia dei primi frutti”, in quanto il re degusta il nuovo raccolto, ma non si limita solo a questo. Ma può essere chiamata anche “cerimonia che celebra il potere del re”. Nessuno al posto suo potrebbe celebrare il “Incwala”, sarebbe un atto di alto tradimento. Il culmine dell’evento è durante il quarto giorno dei festeggiamenti: vi partecipano il re, la regina madre, le mogli del re, i figli reali, i governatori reali (“Indunas”), i capi villaggio, i reggimenti ed il popolo dell’acqua o “Bemanti”.
L’annuale “Umhlanga Reed Dance” in eSwatini (tra fine agosto ed i primi di settembre) è una cerimonia di otto giorni in cui le giovani ragazze Swazi (nubili e senza figli) tagliano le canne e le presentano alla regina madre per poi cimentarsi in balli sfrenati: la tradizione vuole che tale Festa sia stata creata al fine di preservare la castità delle ragazze, incoraggiare la solidarietà nella collaborazione lavorativa delle nuove generazioni, offrire un tributo tangibile alla regina madre. La danza delle canne si è con il tempo trasformata, da antica cerimonia che fondava la sua essenza sull’usanza “Umchwasho” (che prevedeva la formazione di un reggimento tutto al femminile in cui le giovani ragazze venivano inserite ed allontanate dalla famiglia di origine per lavorare al servizio della regina madre e soltanto al raggiungimento dell’età da marito sarebbero di nuovo divenute libere ed avrebbero festeggiato con danze e banchetti.
Naturalmente, nel caso una ragazza fosse rimasta incinta al di fuori del matrimonio, la sua famiglia sarebbe stata obbligata a pagare il tributo di una mucca al capo locale), a Festa folkloristica con contorni gioiosi e colorati.
L’arte Swazi spazia dalle ceramiche ai gioielli ed è molto varia: in particolare la creazione di gioielli ed articoli di abbigliamento con le perline. Ad esempio la “Ligcebesha” è una collana colorata realizzata con le perline, mentre la “Indlamu” è una gonna colorata per le ragazze nubili. Le ceramiche comprendono vasi in terracotta utilizzati per il trasporto dell’acqua, per la cottura della birra, e per le decorazioni. Le sculture in legno sono molto apprezzate come utensili (in particolare il “Umcwembe”, per servire la carne). Anche la realizzazione di oggetti d’uso comune, realizzati con erbe speciali, rientrano tra le creazioni artigianali (gli “emacansi” ed i “tihlantsi” sono tappetini vegetali, oltre a scope, cesti e via dicendo).
Fabrizio Loiacono Photographer
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